In un’epoca di spettacolarizzazione del male e dei cattivi sentimenti, in cui l’ormai famoso “trap” va sdoganando pubblicamente i non-valori del consumismo e della tossicodipendenza, è doveroso tracciare una netta demarcazione nella ridda apparentemente indistinta di generi musicali votati all’espressione degli stati meno nobili dell’animo umano. Da una parte un mero nichilismo, la sterile manifestazione di un malessere generazionale; dall’altra, l’intento monitore di chi non concepisce la musica unicamente come un grido catartico, ma anche come tentativo di denuncia e di rottura di certi pericolosi inganni sociali. È proprio in quest’ultimo filone che si inseriscono gli Hatari, rappresentanti islandesi all’Eurovision Song Contest 2019.
La violenza espressiva degli Hatari irrompe sulla scena senza sprecarsi in edulcoranti premesse. Quale sarà il tenore visivo e sonoro a cui assisterà la platea appare chiaro fin dai primissimi istanti dell’esibizione. Luci sulfuree, volti luciferini, corpi zavorrati e costretti da cinghie pesantemente borchiate esplicitano agli occhi quanto di lì a poco dirà il ferale canto alle orecchie: siamo di fronte alla rappresentazione, parossistica, del male.
La difficoltà interpretativa costituisce senza dubbio una grossa sfida per chi si presenta all’Eurovision con performance di questo genere: come evitare facili fraintendimenti, quando si devia con tanta audacia da certi modelli a cui è abituato il pubblico, specie se il testo è offerto nella lingua originale e non esiste dunque il sostegno della parola a disambiguare il messaggio della canzone? Pur riconoscendo alla musica e alla scenografia degli Hatari un’indiscutibile capacità auto-esplicativa, vogliamo qui analizzare il testo e la performance generale di Hatrið mun sigra per aiutare gli eurofan a schivare la trappola dei semplicismi e trovare la giusta chiave di lettura di una canzone che, anche su apparente suggerimento del titolo (L’odio prevarrà), potrebbe sembrare un’apologia della malvagità. Il reale intento degli Hatari, al contrario positivamente censorio, si palesa cogliendo innanzitutto l’evidente rammarico dei versi interni al testo, che descrivono una realtà imprigionata in una “rete di menzogne” che soffoca qualsiasi tentativo umano di raggiungere la felicità personale, definita “inaffidabile chimera”. La sfrenata pantomima dei ballerini imprigionati prima in gabbie e successivamente sottomessi al comando delle due voci – col ringhio del demonio da una parte e l’accorata litania della vittima dall’altra – confermano il riferimento ai nostri tempi, dominati dalle leggi di profitto e consumo che mortificano l’essere umano e il suo diritto alla felicità, condannandolo alla ricerca di un appagamento materiale asfittico e fonte assetante di bisogni sempre nuovi e mai bastanti. Sul piano spaziale, invece, nonostante sia indubbio che il tema trattato abbracci una dimensione globale, gli Hatari localizzano espressamente il loro inferno in un’Europa che “collasserà”; quale che sia la reale ragione di questa scelta, l’effetto sul pubblico eurovisivo sarà senz’altro quello di sentirsi più profondamente coinvolto e colpito dalla pièce.
Il meccanismo manipolatorio della società capitalista è perfettamente sintetizzato nella danza dinoccolata del ballerino principale, che obbedisce come un burattino all’irresistibile richiamo del cantante-padrone, un fulcro quasi immobile che domina la scena col solo potere del suo bramito bestiale e lo sguardo fissamente amorfo del demonio.
Il burattino, così come gli altri ballerini, cercano invano di sottrarsi al suo controllo disumanizzante, ma per continuare a credere nell’amore e nei valori più autentici è necessario rischiare il dolore e la delusione che essi inevitabilmente possono portare:
“Tutto ciò che ho visto
Lacrime versate
Tutto ciò che ho dato
Che ho dato una volta
L’ho dato tutto a te”.
Così, alla fine, il fragile e contraddittorio essere umano si abbandona completamente al demonio, che lo ghermisce per le cinghie. In quello stesso istante, il burattino collassa su se stesso e si spegne del tutto, troncando d’improvviso l’intero spettacolo.
La scena, ormai muta, ritrae la definitiva sottomissione dell’uomo al demonio che alza il braccio in segno di trionfo, senza però trovare la classica investitura onorifica delle luci della ribalta: il faro che solitamente illumina un cantante al termine della sua esibizione rimane invece spento…nel buio, in cui si intravedono solo le sagome dei protagonisti, l’atmosfera finale è quella di un lutto e conferma dunque la visione distopica già annunciata all’inizio: l’odio prevarrà, perché l’individuo, perdutamente attratto dai disvalori del possesso e del consumo, smetterà per sempre di amare e di coltivare i rapporti umani, per concentrarsi invece su aspetti più venali che, inevitabilmente, generano discordia e malevolenza.
Ben venga il genere degli Hatari, probabilmente l’unico che possa sintetizzare il loro tema e il loro grido di avvertimento: è all’interno di uno dei migliori slogan di sempre, il “Celebrate Diversity”, che si deve infatti ricondurre anche l’hard rock, affinché l’Eurovision possa rappresentare davvero la diversità anche dei generi musicali tutti, allontanando il rischio di un appiattimento musicale a cui spesso questo contest ha ceduto.
Il mix di performance minuziosamente studiata e definita in ogni particolare, il testo in lingua che incontra il favore dei puristi, i “personaggi scenografici” e il profondo, attualissimo tema trattato sono gli elementi che possono portare l’Islanda alla vittoria, sarebbe la sua prima volta.
I precedenti di questo genere musicale sono tanti, anche l’anno scorso gli AWS hanno ricevuto un consenso inaspettato, conquistando la finale e l’approvazione anche dei più ritrosi: il 2006 fu l’anno in cui si avverò il sogno di diversi appassionati, con la vittoria di Hard Rock Hallelujah, la prima storica finlandese e un primo segnale di cambiamento. Erano comunque altri tempi e il risultato era determinato solo dal televoto.
Si ringrazia la coautrice Brunella Paciulli per la collaborazione.
Foto: @hatridmunsigra