Al Museo del Vasa (il vascello principale della marina svedese, colato a picco il giorno del varo).
Mi ha colpito innanzitutto perché aveva la mia età, tra i trentacinque e i quarant’anni, quando è morto sul Vasa, il 10 agosto 1628, che per una coincidenza molto appropriata è lo stesso giorno in cui sono nato (alcuni secoli dopo). Gli hanno trovato in tasca alcune monete di rame, che erano probabilmente la paga del lavoro che faceva, il marinaio. Non sappiamo come si chiamasse perché non aveva documenti addosso, ma a questo punto conta la fantasia. Si chiamava Ivar. E avrei potuto essere io. E fissandolo negli occhi, nella ricostruzione (estremamente realistica) che ne hanno fatto gli etnografi, mi ha trasmesso la sensazione di una vita complicata, portata avanti ogni giorno con estrema difficoltà, ho visto la fatica dell’esistenza nei suoi occhi, sulla sua pelle e nei suoi vestiti, e sulla barba che probabilmente portava come molti uomini della sua età all’epoca.
E’ probabile che gli fosse già successo di avere dei figli.
Non è morto solo lui, quel giorno. Sono stati trovati anche i corpi di due donne che erano probabilmente parenti, una più grande, visibilmente denutrita, e una più piccola, che doveva essere la sorella, e che probabilmente erano ospiti che avrebbero lasciato la nave dopo il varo.
C’erano altre persone, che sono state ritrovate. C’era un ragazzo di 19 o 20 anni, molto alto per l’epoca (più di 1,70), c’era un signore intorno ai 60 anni che probabilmente era uno dei capi della nave, un altro signore di circa 50 anni, nobile e che probabilmente aveva avuto una vita difficile alle spalle, e poi un altro uomo di circa 50 anni, considerato grande lavoratore per le deformazioni che aveva nelle ossa e che erano probabilmente dovute a sforzi eccessivi e costanti.
C’è un momento in cui, se sei alla festa degli israeliani e, dopo che Hovi Star ha cantato anche Take me to church, vedi sul palco Amir, franco israeliano, che canta la sua canzone, mentre accanto a te hai due signori attempati, che sono però probabilmente nati nella seconda metà degli anni Quaranta, però fa effetto lo stesso. Perché ci sono persone che hanno sofferto per supposte diversità affibbiate sulla base di differenze di lingua, di religione e di razza. E cantare, in questo momento, in questo posto, di differenze che valorizzano, di storie di vita, di comunione di emozioni e sensazioni al di là di tutte le barriere ha più senso che farlo altrove. E vivere insieme le stesse emozioni, nella diversità delle esperienze di vita di tutti noi, è il modo migliore per ricordare le discriminazioni che sono state e per impedire che si ripetano. Gli ebrei in Germania durante la seconda guerra mondiale, gli armeni dell’amico Vahe (i Genealogy, l’anno scorso), ma anche i tatari in Crimea come Jamala, e i nostri amici nei balcani, i bosniaci di Srebrenica, e tutte le altre tragedie dell’esclusione che nascono dalla paura.
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